Mi succede sempre

Ci sono sempre dei momenti in cui uno non sa proprio cosa fare.

Se passano gli anni e le cose cambiano, allora è mai possibile che uno debba sempre trovarsi in queste situazioni di m**da? Paradossali, avrei potuto dire, incredibili, per esempio forse sarebbe suonato meglio, assurde avrei potuto scrivere, invece mi sembra che di merda, sia la descrizione più calzante.

Ma tu dimmi come facciamo a sopravvivere a questa apocalisse se dopo quattro giorni di reclusione più o meno forzata, avendo a disposizione wapp, internet, facebook, youtube, telegram e instagram, abbiamo tutti la depressione?

Sono sette anni che non scrivo più una riga, non scrivo più per me, scrivo solo messaggi e nemmeno più mail, mi sento che questo momento così difficile e di incertezza, paura, panico e isteria, se non mi rimetto a scrivere qualcosa, divento matta.

Il fatto è: il Coronavirus. Virus con la Corona, che arriva regale e bastardo come pochi, sire non hanno più mascherine, si mettano in faccia le brioches, dice il virus.

Ci impone il riposo forzato, pochi contatti, non ci fa uscire e andare a scuola e nemmeno a ginnastica artistica, per precauzione, certo, il rischio è basso, mica si muore, forse se sei un vecchio decrepito o un malato con un sistema immunitario che fa schifo allora sì, ma sennò ti salvi.

Allora rifletto sul valore della vita, sulla responsabilità civile, su chi deve fare di più perché è più intelligente e su chi invece fa quello che può e prende 15 kg di pane da portare nella credenza, anche se vive da solo.

E se c’è una cosa che mi vene in mente è che, anche se abbiamo milioni di connessioni, siamo soli nella nostra casa piena di pane, che sembra la cucina di Pina la moglie di Fantozzi quando voleva tradirlo col panettiere, soli come non siamo mai stati.

A me la vita mi fa male.

Ritorno pubblicante una poesia.

Strano, ma in questi giorni non ho fatto altro che pensare alle poesie e alle cose che mi circondano.

A ME LA VITA MI FA MALE

A me la vita mi fa male

con le sue manine gelide mi tocca la pelle sotto i vestiti,

d’inverno.

A me la vita mi fa male

mi graffia la faccia quando cerco di avvicinarla

e mi fa sanguinare come una madonna addolorata.

A me la vita mi fa male,

mi mette la nausea sul piatto da mangiare.

A me la vita mi fa male.

Ma forse, mi fai più male tu.

Muoiono tutti e rimaniamo solo noi, che facciamo schifo.

Qui, ragazzi, la situazione è tragica.

Continua a morire gente importante e, ad esclusione di qualche rara eccezione (vedi Giulio), potrei assolutamente affermare che senza queste persone, il nostro presente stia inequivocabilmente precipitando in un passato medioevale spaventoso.

Ieri è mancato Don Andrea Gallo.

Tante parole si possono spendere per descrivere la meravigliosa personcina che era.

Pieno di contraddizioni, cattolico comunista, amico delle puttane, nemico della Curia, combattente partigiano, vivo e ruggente nei confronti della società, un uomo buono.

Ma al di là dei senz’altro meritati elogi, la cosa più sconvolgente rispetto alla sua morte è che lui va ad ingrossare le fila dei saggi in Paradiso, togliendo invece punti saggezza alla nostra già scarna e arida Italietta moribonda.

Chi ci rimane?

Se escludiamo gli imbonitori, i matti, i disonesti, gli ignoranti e la nostra classe politica che da sola incarna tutti i valori alti prima citati, non abbiamo più nessuno da mettere sull’arca.

Potremmo, per quel che mi riguarda, finire tutti travolti, in un’onda gigantesca provocata dallo sdegno divino e non lasciare più traccia alcuna, morti senza misericordia, senza lasciare un ricordo.

Mi sento come se non avessi più scampo, come se l’ultima delle corde alle quali ero legata per non cadere nel vuoto, si stia sfilacciando e mi manchi ancora poco tempo prima di cadere nel centro della Terra e non tornare mai più.

Generazioni disgraziate, senza lavoro, senza amore, senza futuro.

Ci affidiamo a wikipedia per sentirci pieni di cultura, crediamo che ruzzle sia il sostituto delle parole crociate, abbiamo perso di vista l’importanza della lentezza, del goderci  le cose che abbiamo, di immergerci nel presente come in un secchio di vernice azzurra, sentire la viscosità del colore che ci tinge fino a metterci dentro tutta la testa e perderci dentro, inebriati dall’ odore forte e fresco del muro pulito.

Prendiamo, consumiamo, buttiamo.

Tutto ha lo stesso valore.

La conoscenza che abbiamo delle cose è nozionismo e non sappiamo più il gusto della felicità o della frustrazione, non tocchiamo più la frenesia dell’aspettare, non ci confrontiamo più.

Oggi, che siamo rimasti solo noi che facciamo schifo, dobbiamo prenderci la responsabilità di essere migliori, perché i nostri figli possano avere una possibilità, non abbiano solo apparenze e sogno americano, ma almeno un mazzetto di persone, per bene, da imitare e seguire.

Un saluto a pugno chiuso a Don gallo, resisteremo anche per te e che la terra ti sia lieve.

Maestrina dalla penna rossa ovvero come tirarsi addosso le ire funeste della gente a causa della propria invadenza.

Io odio le persone invadenti.

Odio le loro manine lunghe e viscide che si sporgono ad acchiappare le cose che non li riguardano, odio i loro nasi appuntiti che spingono impercettibilmente verso l’alto ad indicare che loro sentono tutti gli odori che li circondano, odio i loro occhi scrutatori e rotondi quasi suini che ti studiano, da testa a piedi, in tutti i particolari e ti fanno sentire come fossi nuda in mezzo a piazza tienanmen.

Detesto le loro voci gutturali che, quasi come fossero contrabbassi suonati male, tuonano sentenze sul conto della gente  che conoscono e vedono, enfatizzando in maniera grottesca i dettagli imbarazzanti al punto tale che nell’ascoltarli, a volte, mi sembra che le orecchie siano sul punto di sanguinare per la rabbia.

Non sopporto le loro testoline rotonde da tartarughe marine che sporgono con maestria e dovizia un po’ più in qua e un po’ più in là, ogni volta che tentano di ascoltare conversazioni, racconti e avvenimenti che non li riguardano, e si sforzano così tanto che a volte finiscono persino per  provare della sofferenza fisica, pur di sapere.

Li vedi abbarbicati sui cigli, coi colli allungati, ad annaspare in inutili acque di non loro proprietà che fingono di affancendarsi per coprire i loro insani gesti di invadenza, quasi a nascondere la leggera vergogna che provano agli occhi della società che li trova irrispettosi e subdoli.

E loro questo lo sanno bene.

Gli invadenti in tasca hanno una schiera di timbri di legno, quelli un po’ pesanti con l’impugnatura ergonomica che usi alle elementari per fare le decorazioni degli animali e, quant’èvverroiddio, sono pronti ad usarli contro chiunque.

Infatti, quando incontri in un corridoio stretto uno di quei brutti ceffi, devi stare molto, ma molto attento.

Innanzitutto si sente partire dal fondo, di default,  la musica dei film di Sergio Leone preludio della sfida “tatata ta ta ta” e già da lì capisci che non andrai incontro a niente di buono, e poi la gara vera a propria, devi essere abile a schivare i timbri che dall’altro lato arrivano alla velocità della luce, copiosi e feroci, lame taglienti dell’autostima e del sistema nervoso.

Gli invadenti ti marchiano, giudicandoti volta per volta con spietata efferatezza, salgono sul piedistallo e sparano con furia cieca, sanno tutto loro, non ascolto, depositari del bene e del male, affondano nei tuoi punti deboli, a suon di “devi fare così, devi guardarmi quando ti parlo, devi ascoltarmi e rispondermi a dovere”.

Stamattina ho fatto la lotta con una di loro ed è stato, credetemi, terribile.

Per quanto cercassi di perseguire la via ghandiana della non violenza, non riuscivo a salvarmi, le sue parole mi schiacciavano, i suoi pregiudizi e la sua ignoranza mi colpivano come pugni allo stomaco, e mi rompevano la mascella, mi bloccavano la voce.

Ad un certo punto il lampo di genio.

Ho pensato che qualsiasi cosa avessi detto, mi si sarebbe ritorta contro (contando che le prime dieci opzioni sarebbero state bestemmie) e allora ho pensato “aspetta aspetta, vuoi vedere che se cerco in fondo alle tasche trovo anche io un timbro?

Allora ho frugato, sulle prime non ho trovato nulla anche perché cercavo nervosamente, avevo le mani sudate e la testa in  ebollizione, poi ho tastato bene, l’ho riconosciuto, l’ho estratto e gliel’ho tirato, con foga, quasi senza pensarci.

Dopo lo stupore e lo stordimento, colavano dalla sua faccia rivoli di inchiostro blu e una scritta campeggiava sulla sua fronte.

“Sei una maestrina dalla penna rossa”

E il suo sguardo attonito e stupito, addolorato e incredulo, insieme alla sua bocca imbronciata, mi hanno ripagato di tutto.

Atmosfera vagamente rétro.

Stamattina ho preso un palo della luce in faccia.

Non sto parlando per metafore come faccio di solito,  non sto intendendo quel tipo di sensazione spesso provata quando dal nulla giunge un’inaspettata, brutta o deludente notizia,  sto proprio raccontando un fatto concretamente accaduto.

Come tutte le mattine della settimana lavorativa (5 su 7, nella peggiore delle ipotesi) salgo spedita le scale della fermata della metropolitana Crocetta e  salto i gradini a due a due, non perchè sia particolarmente ginnica, ma perchè sono, come sempre, in ritardo.

Mi faccio spazio tra gli zaini, gli ombrelli, la signora che chiede la carità che tutte le settimane cambia il cartello, cambiando la richiesta (che poi alla fine non è che uno dovrebbe stare proprio a guardare tutto però, di fatto,  mi viene da pensare che le cose che scrive non siano poi cosi veritiere) e che stamattina diceva HO FAME, e cerco di sgattaiolare fuori, per prendere una boccata d’aria e correre come Fantozzi a timbrare il cartellino.

Dal marciapiede butto un’occhiata alla strada, per evitare di finire nell’ordine sotto il tram, i motorini che accellerano sgasando a tutto spiano e le ambulanze che dalle nostre parti sono di casa e, convinta di aver scampato ogni pericolo scendo dal gradino e attraverso, con passo svelto.

A volte le attività più semplici sono quelle che possono nascondere le peggiori insidie, sia perché essendo semplici uno non ci mette la dovuta attenzione dando per scontato che andranno senz’altro per il verso giusto, sia perché compierle dopo aver ricevuto decine e decine di premi per la migliore imbranata dell’anno, ti avvicina incredibilmente e inevitabilmente verso un sonoro fallimento.

E fu così che con la musica nelle orecchie e la testa bassa conobbi, con grande dolore, il tocco durissimo del palo di ferro in faccia.

E’ stata una scena davvero tragicomica, perché la gente non ci poteva credere che una ragazza della mia età, apparentemente normodotata, potesse aver fatto una cosa simile e quindi mi passava di fianco girandosi con facce interrogative mentre io,  dopo l’impatto, mi tenevo la testa imprecando con una certa signorilità, con discrezione diciamo, con locuzioni del tipo “ma ca**o, ma non è possibile, mi si è spaccata la testa” e cose così.

Solo un ragazzo si è fermato e mi ha chiesto se mi fossi fatta male.

E io gli ho detto che non mi ero fatta niente, che ero solo molto arrabbiata e che questa giornata cominciata con la pioggia sarebbe finita con l’uragano, se tanto mi dava tanto.

Il ragazzo è scoppiato a ridere e io con lui.

Ci siamo salutati, andando ognuno verso il proprio destino lunedìmattinesco, con un misto di allegria e rassegnazione.

La morale è che di lunedì mattina, nulla può essere dato per scontato ma se porti degli abiti stravaganti e degli occhiali da nerd, puoi sempre far credere a tutti che la tua goffaggine non solo sia intrigante, ma che ti conferisca persino un’aria vagamente rétro.

tutto quello che non è necessario sapere e che sarebbe meglio non dire.

Sono giorni che mi arrovello su quali possano essere i metodi più efficaci per eliminare dalla faccia della terra la gente che mi risulta molesta.

Ammetto che il pensiero sia un po’ macabro e un po’ complicato, ma sono sicura che se anche voi aveste il mio basso livello di sopportazione nei confronti della gente,  vi ritrovereste a fare i miei stessi pensieri.  Identici.

Immaginate di essere inseriti in un sistema valoriale e di ragionamento degno della sig.na Rottermeier, una sveglia quotidiana delle 6.20 e una una folgorante carriera da pendolare.

Mi sembra normale poi che arrivi un punto in cui tutta la gente che vi circonda vi sembra potenziale carne da macello, da trucidare con un bel lanciafiamme, da uccidere con una mitraglietta che provoca ripetuti e goduriosi rinculi ad ogni colpo, da sciogliere nell’acido e così via.

La caratteristica peggiore delle persone che odio e che, al momento, sta rendendo la mia esistenza davvero faticosa è la temutissima logorrea.

La logorrea è una malattia dell’apparato orale che si impossessa delle parole della persona che ne è affetta e le trasforma in una serie ininterrotta e infinita di baggianate senza senso, caratterizzate soprattutto dalla assoluta  mancanza di pause.

La logorrea è la nemica numero uno del silenzio.

L’unico antidoto possibile a questa gravissima patologia è infatti una bella iniezione di mutismo che, somministrato in dosi massicce, riesce ad ottenere dei buoni risultati sulla maggior parte dei pazienti che hanno ricevuto il trattamento.

Il problema però, sta nel fatto che non sia assolutamente facile riuscire ad acchiappare un logorroico per ficcargli una bella siringa sulla chiappa poiché egli, oltre ad essere un velocissimo parlatore è anche agitato e agile come un cocainomane alla guida di un suv.

Sfreccia quasi impercettibile schivando gli ostacoli e dietro di se’ lascia una scia sonora di parole dette a caso, che suonano come i clacson dei trattori quando bloccano le autostrade per la protesta contro le quote latte, suoni acuti e continui che si sovrappongono, bucano le tempie, stracciano i sistemi nervosi.

Purtroppo il mio ufficio è disseminato di questi improbabili figuri.

In ogni angolo si annidano e ti aspettano per farti gli agguati, ti saltano addosso parlandoti di cose di lavoro, miste ad affari di famiglia, miste ad affari di casa e in qualche caso non sono nemmeno evitabili o sfanculabili perché sono dirigenti o, ancor peggio, capi.

Stamattina, sul bordo dell’ennesimo orlo di una crisi di nervi, ho davvero vacillato, ho avuto paura di cadere dall’altra parte e di far succedere un finimondo.

Poi però ho resistito, ho pensato al silenzio del bosco, alla pace che c’è sulla spiaggia di sera, al bene che voglio all’umanità e mi sono trattenuta.

Ho desiderato uccidere e trucidare, ma ho resistito.

Alla fine ho i miei buoni motivi per essere allegra, per ricercare fuori da qui delle ottime ragioni per non voler finire il resto della mia vita in carcere per omicidio premeditato e sono sicura che se non fosse stato così, probabilmente starei cercando il modo migliore per spiegare alla mia gatta che si sarebbe dovuta trasferire in collina dai nonni, per un po’.

Le mie ragioni per essere placida e serena però non interessebbero a nessuno di logorroici perchè, pur essendo incredibilmente belle, sono indescrivibili a parole.

E, nonostante anche io (forse un po’ contagiata) abbia sempre creduto che se una cosa non viene detta allora non esiste, credo di avere proprio cambiato idea al riguardo, perché stavolta non non ho bisogno di sentire le spiegazioni o di spiegare le ragioni.

Basta esserci e tutto sommato è molto meglio così.

8 marzo 2013 – un momento qualunque per parlare di donne.

Quando arriva l’8 marzo, mi coglie sempre impreparata.

Eppure è tutti gli anni nello stesso identico posto, tra il 7 e il 9, nella seconda settimana dello stesso terzo mese dell’anno, da sempre.

Ogni volta che, la notte dopo il 7, mi risveglio all’ 8 di marzo  (dopo aver realizzato il fatto, coadiuvata da mezzi di informazione vari e svariate tazze di caffè) penso  “no, porca vacca, oggi è la festa della donna e io non avrò un ca**o di intelligente da dire ! no anzi, non solo non avrò niente da dire, sono stata così stupida da non aver pensato a niente di sensato da dire, pur avendo avuto un anno a disposizione”.

E giù con le colpevolizzazioni mattutine che non fanno mai male, tengono lo spirito vivo e la mente allenata.

Stamattina quindi si è ripetuta la stessa scena di sempre.

Sono le 6.

Suona la sveglia, si accende in automatico la radio.

“Buongiorno e auguri a tutte le donne!”

“Ecco, lo sapevo è l’8 marzo, di nuovo”.

I programmi radiofonici continuano con un notiziario che annuncia la morte di tre donne, uccise dai mariti e dai fidanzati, in queste notti che precedono la fatidica, e si concludono con una sintetica spiegazione dell’origine storica della festa della donna.

La verità è che a me sembra tutto surreale.

Surreale che stasera ci saranno in giro orde di donne assatanate di spogliarelli che vagheranno per le città invadendo le pizzerie e i ristoranti, agghindate per sedurre e felici di essersi sbarazzate, almeno per una sera,  dei loro “maschi” di casa.

Surreale che ci siano, ad ogni angolo delle strade,  venditori ambulanti di mimose, sfruttati, malpagati , poveri, che sorridono offrendoci il simbolo di una distorta emancipazione femminile, formato mi lavo la coscienza e non sento le lagne della moglie.

Surreale che, ancora oggi, ci siano donne nel cosiddetto mondo occidentale- il primo mondo- che nascondono le violenze che fanno loro i mariti, i compagni, che vengono nel pronto soccorso dell’ospedale dove lavoro con le braccia e le gambe rotte dalle botte e che, nonostante tutto, non riescono a scappare.

Per tutti questi motivi, ogni anno, la festa della donna mi coglie impreparata e non trovo mai niente di intelligente da dire.

Credo che esistano anche uomini intelligenti e saggi, che leggeranno questo pezzo e che si vergogneranno,  anche solo un po’ , per tutti quelli che sono violenti e ottusi e questo già mi fa stare meglio.

Essere maschi e femmine dipende esclusivamente da una pura casualità genetica, essere uomini e donne,  invece, dipende anche dal coraggio di essere giusti, di lottare per avere riconosciuta la propria dignità, per impedire che si calpesti quella del prossimo.

Auguri donne e uomini che avete e avrete la forza di ribellarvi a tutti quei meccanismi che rendono la donna schiava, la fanno sentire un oggetto senza valore,  e che non aspetterete il prossimo 8 di marzo per indignarvi ma che, al contrario, lotterete anche contro la vostra pessima memoria per ricordarvelo non dico proprio sempre, ma almeno più spesso.

Scriverò solo banalità. Sottotitolo:se non bestemmio, guarda..

Stanotte è morto un ragazzo della mia età che conoscevo.

A vederla così la frase che ho scritto sembra riferirsi ad un evento, senz’altro drammatico, ma piuttosto normale e soprattutto privo di dolore o coinvolgimento emotivo.

A volerla dire tutta la scelta delle parole, per il mio personalissimo sistema di ragionamento, è il più azzeccato che ci possa essere.

Marco non era un amico.

Non era uno con cui sono andata in vacanza, con cui sono uscita a festeggiare per gli esami o a piangere perchè il ragazzo mi aveva lasciato; avevo il suo numero di telefono, ma non l’ho mai chiamato e lui non ha mai chiamato me,  avremmo scambiato nella nostra vita in totale, se le metti tutte insieme, due ore di conversazione.

Marco era uno che conoscevo, che vedevo sempre ai concerti, perchè lui era un cantante, era simpatico, gioviale a tratti anche molesto, però era una di quelle persone che a me faceva piacere vedere, che la abbracciavo sapendo che avrebbe fatto un commento maschilista o mi avrebbe stretto fin troppo energicamente.

Non si può dire, perciò che fosse una persona importante per me o che fosse un fratello, ma Marco adesso è morto e io sono totalmente inerme.

Non riesco a pensare a nient’altro da quando ho ricevuto la telefonata di un’amica che, nel pomeriggio, mi ha chiamata esordendo con un fottutissimo “ti hanno già avvertita?” che mi ha fatto subito trasalire e poi, una volta saputo, mi ha fatto incazzare.

Ci sono notizie che non sei mai pronta a ricevere, non riesci quasi a capirle, dici ma no, non è possibile, la mia età, ma va sarà un altro.

La morte delle persone che ti hanno toccato, parlato, emozionato e che prima c’erano ed erano come te, liceo a voghera-università-lavoro-musica-serate, è un concetto inaccettabile e inaudito.

Come il gelato, che so, allo speck.

Tutte le bestemmie che ho cacciato oggi tra le lacrime e l’irrefrenabile voglia di diventare credente in Dio, in modo da potermi segnare tutti gli schiaffi da dargli sonori a due a due in faccia il giorno del giudizio, sono l’unica cosa che posso dedicarti caro Marco.

Alla fine, se un po’ ti conscevo, so che apprezzerai.

Semper biot

Oggi sono stata tutto il giorno a casa e mi sono sentita come non mi sentivo da anni.

Quelle domeniche del liceo in cui devi stare a casa a studiare cose che non ti interessano, ma devi farlo perchè poi lunedì ti interrogano, che poi alla fine prof. non si può interrogare di lunedì porco giuda che il sabato è l’unico giorno che possiamo uscire e poi la domenica facciamo fatica a studiare.

Insomma, leggero mal di testa, contrariata, occhi gonfi per la troppa esposizione al pc e incapacità di scollarmi di dosso la sensazione di essere in gabbia e di non poter nemmeno pensare ad un modo per evadere.

Mi farebbe sentire troppo in colpa, che non sto onorando il senso del dovere, la parola data, quello che gli altri si aspettano da me, che sono una ragazza affidabile, minchia Alice è mica una che se dice che fa una cosa poi non la fa.

La fa.

A tutti i costi.

Mentre combattevo con i demoni del passato, i demoni del presente, le occasioni perdute, l’immaginazione di una vita nuova e le trascrizioni dal cirillico, ho guardato fuori dalla finestra delle cucina e ho visto una specie di nuvola rosastra.

E mi è proprio arrivato, come un pugno allo stomaco, bello secco e ben assestato, il ricordo della mia infanzia.

Studiare i Fenici, sapere i Fenici e dopo, solo dopo, uscire a giocare.

Ma tra che impari i nomi dei Fenici, ti metti a capire dove come e quando, leggi anche un po’ così che sei agli inizi è già buio e fuori non c’è più nessuno che gioca.

Beh chissenefrega, alla fine vediamo domani chi li sa i Fenici.

Poi ancora un’altra botta, ancora più indietro nel tempo, quando ero bambina dell’asilo o giù di lì e la domenica potevamo dormire tutti nel lettone.

Quel momento lì, in cui non devi far altro che essere quello che sei, che se cadi e ti fai male c’è qualcuno che ti prende in braccio, che se piangi ti si asciuga le lacrime col fazzoletto che ho nel grembiule, dai non piangere più che diventi brutta, quando bastava che qualcuno ti abbracciasse perchè ti sentissi davvero al sicuro, mi è mancato da morire.

La malinconia è la mia malattia incurabile e in questa domenica così lunga, così solitaria e deludente, non c’è niente che mi possa risollevare il morale.

A parte te, ricordo di me bambina nella tinozza dell’acqua in cortile, coi riccioli bagnati sugli occhi.

Semper biot, urlava mio nonno, semper biot!

A volte (poesia scritta per caso, una sera d’estate)

Pubblico, per alcuni miei fan, una poesia scritta sul finire dell’estate scorsa.

Una delle due uniche composizioni poetiche da me prodotte.

E credo capirete anche il perchè.

 

A volte

Vorrei dirti ti amo, ma poi penso che non sia il caso.

Non perché dire ti amo sia troppo impegnativo o banale

Ma perché sono sicura che tu diresti grazie

 

E allora dico

Vuoi proprio che una personcina di un certo livello come me

Si metta a fare la sentimentale che poi rischia di farci pure una figura di merda?

 

A volte vorrei dirti ti amo, ma poi ci penso

E ti chiedo di scopare.

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